I dieci ostaggi che salvarono il paese
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Il 5 ottobre del 1944 alle ore 9 del mattino in via Abegg, tra l’attuale semaforo e la palestra scolastica, un tedesco viene ucciso in un agguato da due partigiani.
Si tratta di un portalettere che viene derubato, così sostengono i tedeschi (e negano i partigiani) della somma di 30mila lire e dell’arma di ordinanza.
Il giorno successivo il colonnello di stanza al comando tedesco di Bussoleno fa recapitare al commissario prefettizio di Sant’Antonino, Mario Garnero, una precisa richiesta:
“entro le ore 12 del giorno 8 dovranno essere consegnati dieci ostaggi: un funzionario del Comune, un sacerdote, un maestro, una persona nota nel commercio o industria, un negoziante, tre comunisti, due agricoltori”.
Il numero di dieci ostaggi nelle azioni di rappresaglia e il valore dei medesimi – scelti in questo caso a rappresentare le diverse categorie del paese – erano la diretta conseguenza di un ordine dato dallo stesso Hitler e applicato in tutti i teatri di guerra in Europa dalle Fosse Ardeatine in poi.
I dieci ostaggi, riferisce il documento, “mi serviranno di garanzia affinché tali incidenti non si verifichino d’ora in poi nel territorio del vostro Comune”. La somma derubata al soldato dovrà essere restituita entro il 10 ottobre.
Di questo episodio, recentemente, è stata offerta un’interpretazione diversa: gli ostaggi furono più di 10, senz’altro 11 se non 12 e i medesimi furono presi “per evitare che il paese fosse messo a ferro e fuoco”.
Entrambe le affermazioni non trovano riscontro nei documenti conservati presso l’Archivio Storico Comunale (faldone 374, fascicolo 2520).
Dell’episodio riferirono già Bruno Andolfatto utilizzando il diario di don Oreste Cantore, e nel Quaderno della memoria n. 8 dedicato a Ilse Schölzel Manfrino (pp. 15-16) pubblicato dall’Università della Terza Età nel 2004, il sottoscritto nel Quaderno n. 9 dedicato a Mario Garnero (pp. 4-5) nel 2005 e ripreso – con molti riferimenti archivistici – da Enrico Miletto nel suo saggio “Le valli ferite” pubblicato nel volume “1940-45. Guerra e società nella provincia di Torino” Ed. Blu, Torino 2007, pp. 143-146.
Cosa accadde dunque? E, soprattutto, può una testimonianza orale (in questo caso non diretta) cambiare la nostra conoscenza dell’evento e modificare riconoscimenti successivi?
Ricostruiamo anzitutto i fatti.
Avuta la notizia della morte del soldato, il comando tedesco di Bussoleno ordina l’invio di dieci ostaggi e comunica che scenderà in paese per un’azione punitiva. Le misure di rappresaglia, recita il documento, “dipenderanno nella loro estensione dalla prontezza con la quale sarà effettuato il mio comando” i dieci ostaggi dunque “saranno di garanzia” mentre i tedeschi compiono le loro azioni.
In altre parole se qualcuno tra la popolazione o tra le forze partigiane si fosse ribellato, i dieci ostaggi volontari sarebbero stati uccisi.
Il che significa, tra l’altro, che se i tedeschi avessero voluto dare fuoco a qualche casa lo avrebbero fatto, forti della consegna dei dieci ostaggi volontari.
Mario Garnero tenta una mediazione offrendosi come unico ostaggio, come si legge nella lettera conservata in Archivio, ma la sua proposta non è accolta, anche Ilse Schölzel Manfrino – il cui ruolo di collaborazione con il CLN locale è anch’esso documentato – cercò senza riuscirvi di convincere il comando tedesco a recedere dall’intento.
Mario Garnero il 9 ottobre consegna la lettera con i nomi dei dieci volontari del paese. I tedeschi compiono il rastrellamento e accompagnano sul treno diretto a Bussoleno diverse decine di prigionieri, don Cantore ne ricorda “almeno150”, e i 10 ostaggi volontari.
Questi ultimi però furono “accantonati” cioè isolati e venne garantito loro un “trattamento corretto ed un vitto adeguato (a spese del Comune)” proprio come a dei condannati a morte. La prigionia durò una settimana. In seguito a ciò il comando tedesco ottiene l’istituzione di ronde cittadine per il controllo del territorio e una nuova “propaganda” per l’invio di operai alle industrie tedesche.
Questo perché il rapporto tra la popolazione, le sue autorità, e i tedeschi di Sant’Antonino era buono e lo stesso comando di Bussoleno riconobbe che non si trattò di un’azione di guerra ma di un fatto isolato di rapina a mano armata.
Il ricordo, recente, di chi accredita un proprio congiunto tra “gli ostaggi a Bussoleno” è certamente da attribuire ai prigionieri vittime di quel rastrellamento e non già ai dieci ostaggi volontari il cui elenco nominativo è conservato presso l’Archivio Storico Comunale. Rischiarono molto tutti, ovviamente, sia i prigionieri sia gli ostaggi volontari – ricordo, per richiamare il clima di quei giorni, che 16 giorni dopo l’episodio i tedeschi tornano in paese ed intimano alla popolazione l’immediato rientro nelle case ma un civile si attarda sull’uscio e viene ucciso senza troppi indugi – ma i primi furono obbligati ad andare prigionieri mentre don Oreste Cantore, Ernesto Colombino, Francesco Rumiano, Nello Rege Gianas, Ranieri Votta, Erminio Cometto, Abele Giovale Merlo, Silvio Alotto, Giovanni Bugnone e Ettore Rege Moretto ci andarono come ostaggi volontari imponendo, di fatto, una tregua tra le forze in lotta. A loro, e solo a loro per quanto fatto in quell’occasione, va la nostra riconoscenza civile.
Piero Del Vecchio