1° maggio, che vita d’acciaio!
La festa del lavoro a San Didero con le tute blu della Beltrame che difendono il posto di lavoro. Come si vive (o si viveva) in fabbrica. Sveglia alle 3.30, il viaggio e il turno che inizia alle 5.30. E con la crisi? Tutti qui, davanti ai cancelli: “Tra di noi nessun rassegnato”
Festa del lavoro che non c’è, festa del lavoro che non si cerca neanche più, festa del lavoro che si è perso o che si rischia di perdere. E poi festa di tutti i lavoratori. Anche di chi sta cercando di difendere il proprio posto con le unghie e con i denti, aggrappato fisicamente a quel cancello che ha varcato per anni e anni e che ora rischia di chiudere lasciando in mezzo alla strada centinaia di persone e famiglie.
Succede alla Beltrame. Dove più di 350 lavoratori passano attraverso il primo maggio più incerto della loro carriera. Sullo stabilimento di San Didero – Bruzolo pende infatti la spada di Damocle della chiusura dello stabilimento. E le tute blu son qui, tutti i giorni, 24 ore su 24. Fanno i turni non per tenere acceso un altoforno o per alternarsi al laminatoio ma per impedire che escano o entrino merci e magari macchinari da inviare in Francia o in qualche altro stabilimento del gruppo.
Qui vale la vecchia regola dell’uno per tutti, tutti per uno. Del non dividersi, del restare uniti. Del mettere insieme tante storie, in una storia. L’Acciaieria è anche questo. E non è retorico definire “vite d’acciaio”, quelle di chi lavora qui dentro.
Come Vincenzo Verzola, di Chianocco, venuto a lavorare qui nel settembre del 1985. “Avevo 23 anni. E l’impatto con il fumo, il rumore, il fuoco, il caldo dell’acciaieria non è stato facile. La temperatura del liquido nell’altoforno supera i 1000 gradi e a starci vicino fa un caldo da morire. Soprattutto d’estate”.
“Ma non è che d’inverno vada meglio – precisa Tommaso Fera, che arriva da Settimo – perché ci sono gli sbalzi di temperatura. Lavori con la faccia rossa per il calore e la schiena fredda perché il capannone è grande e appena un po’ oltre l’altoforno il clima è rigido”.
E poi che vita, qui dentro. “Ai bei tempi – racconta Vincenzo – quando il lavoro non mancava si andava avanti a ciclo continuo, su tre turni. E a ciascuno toccava fare sei notti di fila, poi due giorni di riposo; poi sei pomeriggi e altri due giorni di riposo; poi sei mattine, altri due giorni di riposo… e così via”. E il sabato e la domenica mica si sta casa: “Capitava solo ogni sei settimane di avere il riposo che coincideva con il week end”.
Vita dura, insomma. Anzi durissima. E a volte spietata. Soprattutto quando andava incontro agli infortuni e, in qualche caso, anche alla morte. Perché fino a decina di anni fa, poco più poco meno – prima che la Beltrame investisse (e tanto) in sicurezza nel lavoro e nell’ambiente, si rischiava davvero la vita. Michele Bufalo, di San Benigno Canavese, racconta: “Ne ho visti tanti di infortuni in questa fabbrica. Ricordo il mio capoturno, quando in un incidente perse le dita di una mano”: L’elenco è lungo. E qualcuno ci ha rimesso la vita, come Piero Girardi di S.Antonino. O come il caposquadra Simonetta: “Era il 2001 se non ricordo male, e la siviera ha versato in un punto dove c’era acqua. C’è stata un’esplosione. E per lui non c’è stato nulla da fare”. Ma da parecchi anni, dicono i lavoratori, le cose sono cambiate. L’azienda ha investito molto in sicurezza e l’ambiente di lavoro è diventato sicuro.
Giornate sempre dure però, anzi durissime. Con orari tremendi, soprattutto per chi arriva da lontano. Proprio Michele Bufalo racconta l’odissea quotidiana: “Il turno più faticoso? Quello del mattino. Sveglia alle tre e mezza. Salto in auto e vado fino a Settimo, dove alle 4.45 prendo il pullman che mi porta a San Didero e che prima fa tappa a Torino. Arrivo in acciaieria alle 5.30. Lavoro fino alle 14. Alle 14.30, il viaggio di ritorno. Arrivo a casa alle 15.50”. E il viaggio in pullman? “Ce lo paghiamo noi. E sono 65 euro al mese”.
Con quale paga mensile? “La paga basa è di 1300 euro al mese, se se fai i turni son 150 euro in più”. Le cose cambiano se prendiamo un giovane che fa la giornata, a paga base: 1050 euro al mese.
Che adesso manco ci sono, sostituiti dalla cassa integrazione che scade ad agosto. E poi chissà….
Ma è Michele, il “cuoco del presidio” che mentre sbuccia le cipolle esclama con convinzione: “Scrivilo mi raccomando, che tra di noi non c’è rassegnazione,che la speranza è l’ultima a morire, che noi non molliamo la presa”. Insomma le tute blu Beltrame rimangono appiccicate alla loro acciaieria e questo lavoro proprio non lo vogliono perdere: sarà maledettamente faticoso ma per loro e per le loro famiglie è vitale.
E incitano Beltrame a tenere duro, a scommettere che la crisi finirà. Già questa crisi maledetta che, racconta Tommaso Fera, “ha iniziato a farsi vedere nell’autunno del 2008 e che è scoppiata nel 2009. E’ arrivata la cassa integrazione ma prima ancora sono state usate le ferie residue come primo ammortizzatore sociale. Il lavoro è diminuito drasticamente e in acciaieria da 4 squadre si è passati a 3. Poi ci sono stati i periodi di chiusura dei forni. E l’acciaieria ha smesso del tutto- Ed è dal maggio del 2012 che il forno è spento”.
Certo che l’Italia è proprio strana, dicono i lavoratori. “Qui – a parlare è Sergio Pivato, delegato Fim– son son stati spesi 35 milioni di euro per la sicurezza ambientale e solo la cappa e l’impianto di abbattimento dei fumi, realizzato nel 2005, sono costati 12 milioni di euro. Una roba che non hanno neanche nello stabilimento di Vicenza, dove c’è la sede Beltrame. E qui saremmo pure in grado di smaltire polveri provenienti da altre acciaierie”. Non solo: “C’erano investimenti in programma per 45 milioni di euro e ne son stati spesi solo la metà perché, nel frattempo, è arrivata la crisi”. Soldi buttati dalla finestra se lo stabilimento cesserà. “E intanto – dicono gli operai Beltrame – le altre acciaierie vanno avanti, come l’Ilva di Taranto. Lì di investimenti per eliminare l’inquinamento non se ne è vista neanche l’ombra. E i risultati si vedono. Con un referendum che costringe i padri di famiglia a scegliere se morir di fame oppure di inquinamento”.
E il paradosso è che anche qui, alla fine, potrebbe risultare fatale la contraddizione tra difesa del lavoro e tutela dell’ambiente e del territorio. Perché è chiaro di cosa si sta discutendo al tavolo tecnico in Regione, dove l’azienda ha ammesso che il problema non è il costo del lavoro (più conveniente in Italia che nella vicina Francia dove Beltrame vorrebbe spostare la produzione) ma una “lista della spesa” che comprende agevolazioni fiscali e migliori condizioni sul costo dell’energia e sulla logistica. Misure che potrebbero entrare in un pacchetto di agevolazioni per il territorio da mettere come contropartita su un altro piatto: quella della costruzione della ferrovia Torino-Lione.
Ma loro, le tute blu Beltrame, vogliono rimanere fuori dalla mischia e non vogliono entrare nella polemica tra Sì Tav e No Tav: “Non tocca a noi decidere se fare o no la Torino-Lione. A noi interessa difendere il nostro posto di lavoro. Chi ci tira dentro questa storia, da una parte e dall’altra – dicono – lo fa in modo subdolo”. Così tra i lavoratori c’è un patto chiaro: “Sul Tav ciascuno di noi ha le sue convinzioni, ed è giusto che sia così. Ma le deve esprimere a una certa distanza da questo cancello. Perché a noi, qui dentro, interessa una cosa sola: lavorare”.