La Shoah dei bambini, storie di desolazione
S.ANTONINO, Sede dell’Unitre – Buio in sala, schermo gigante e in sottofondo le note struggenti di un canto ebraico. Sono le 15.30 di lunedì 21 gennaio, tra qualche giorno ricorre l’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, avvenuta il 27 dello stesso mese del 1945.
Susanna Tittonel, preside che non si è rassegnata alla pensione, inizia a parlare. Quest’anno il tema è uno di quelli che prendono la forma di tanti pugni nello stomaco. Tanti quante sono le fotografie che passano sullo schermo di bambini denutriti, senza sorriso, ridotti in miseria, imprigionati, internati, massacrati e uccisi. E’ uno dei tanti, forse il più terribile, modi di ricordare la Shoah, una parola ebraica che significa desolazione, catastrofe, disastro. “Possiamo immaginare la desolazione di questi bambini?”, si chiede Tittonel che, nella lunga serie di slide, affronta le modalità, i tempi, i luoghi di questo massacro difficile da pensare e da contenere in qualunque mente sana. Si va dall’operazione Aktion T4, con l’internamento in uno dei più eleganti quartieri di Berlino, di bambini portatori di malattie inguaribili, nati con malformazioni e tare ereditarie. L’obiettivo: rendere sempre più pura la razza ariana. “A cose fatte – spiega Tittonel – i parenti venivano informati che il loro caro era deceduto e che per motivi igienici era stato cremato”.
Ma poi la cosa si seppe e le famiglie rifiutarono di consegnare i loro congiunti e l’operazione venne interrotta.
Con i bambini “non tedeschi” le cose furono più semplici per il regime nazista. Il resto del racconto parla di ghetti (come quello di Varsavia dove 400 mila persone (di cui 100 mila bambini) vennero chiusi in un’area di 3,4 km quadrati). Qui i bambini morivano di denutrizione e a causa dell’esposizione alle intemperie. Poi prende corpo la vicenda delle deportazioni nei campi di sterminio e di lavoro. E in molti casi i bambini (soprattutto i gemelli) erano soggetti a esperimenti; il caso più noto è quello del famigerato dottor Josef Mengele, noto come l’angelo della morte del campo di Auschwitz.
E che dire dell’inganno di Terezin, il campo inventato per rassicurare l’opinione pubblica mondiale dimostrando che gli ebrei erano trattati bene al punto da “donare loro una città”? Qui si faceva arte, spettacolo, musica, concerti. Ma gli attori, i musicisti, gli artisti venivano messi “in mostra” in documentari e in occasione delle visite della Croce Rossa per poi essere sistematicamente eliminati.
Alla fine esce la cifra: furono un milione e mezzo i bambini uccisi dal nazifascismo, moltissimi gli ebrei e poi gli zingari, gli slavi, i disabili, i bambini allora considerati “indesiderabili”. Poi ci sono i sopravvissuti in quell’inferno. E la domanda è che cosa hanno fatto dopo e come hanno fatto a continuare a vivere. “Questi bimbi sono cresciuti nell’orrore e nel terrore – afferma Tittonel – e l’Olocausto era il latte nero (come disse Paul Celan) che succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera”.
Per i bambini sopravvissuti la guerra era stata la vita. Potevano parlare solo di paura, di fame, di colori, di celle, di persone che erano state buone con loro o che li avevano maltrattati. Non stupisce che la loro testimonianza sia stata respinta dagli stessi sopravvissuti adulti; da questi ultimi era considerata una fantasia, una distorsione.
Liliana Segre, di ritorno da Auschwitz, ricorda: “Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io, una ragazzina reduce dall’inferno dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Così – annota – imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva e dovevo adeguarmi a un mondo che voleva dimenticare il dolore di quegli anni e che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza”.
BRUNO ANDOLFATTO