La vita di undici ebrei, tra il ’44 e il ’45, venne protetta e salvata da alcuni cittadini santantoninesi che si presero cura di loro. A far uscire la vicenda dal dimenticatoio in cui rischiava di sprofondare è l’Unitre di Sant’Antonino di Susa che il 28 novembre scorso ha organizzato la conferenza su:
“Salvatori e salvati. Testimonianza e memoria del salvataggio da parte di cittadini santantoninesi di ebrei sfollati da Torino tra il 1944 e il 1945”,
con la sindaca Susanna Preacco, il presidente Unitre Piero Del Vecchio e il consigliere della Comunità ebraica di Torino Franco Segre. In serata, nel corso del consiglio comunale, c’è stato il riconoscimento della cittadinanza benemerita ad Avventino Burdino e Cesarina Martin, Luigina Rossetto Giaccherino e Letizia Fobini, protagonisti delle azioni di salvataggio e di solidarietà verso gli ebrei durante la guerra.
I tedeschi in trattoria, gli ebrei in casa
E‘ la figlia di Avventino Burdino, Anna, a ricordare in una memoria affidata alla nipote Carola che
“casa nostra durante la guerra divenne un punto di riferimento per i soldati tedeschi che avevano occupato le scuole elementari di fronte a noi. La trattoria gestita dai miei genitori era aperta solo per loro; mia madre era obbligata a cucinare benché non ne avesse voglia e io servivo ai tavoli”.
Anna, nel 1944 aveva 18 anni: “In trattoria venivano per lo più ufficiali e sottufficiali e lasciavano anche i cavalli nelle nostre stalle”.
Una situazione che non impediva al padre di Anna, Avventino, di portare di notte ai partigiani il grano che lavorava di giorno con la sua mietitrebbia.
Proprio negli anni della guerra i Burdino ricevono una richiesta di aiuto dalla moglie dell’impresario che, tra l’altro, aveva costruito il Cotonificio a inizio secolo e per il quale Avventino aveva lavorato portando con i muli la sabbia della Dora.
“La moglie dell’impresario, rimasta vedova e sua nipote, entrambe ebree, chiesero ai miei genitori se potevano nascondersi a casa nostra. Mio padre non ebbe alcun dubbio; preparò una camera sopra la trattoria e le due donne rimasero con noi per sei-sette mesi. Era una situazione molto pericolosa. Fortunatamente nessuno si accorse di nulla. Le due donne vivevano in uno stanzino sopra la trattoria e, nello stesso periodo, avevamo i soldati tedeschi in casa e di fronte casa. Ogni giorno c’era un via vai di gente; sarebbe bastato poco per essere scoperti ma fummo molto prudenti”.
Gli ebrei rifugiati al Cresto
Gabriella Cantore in una nota scritta, evoca il ricordo della famiglia ebrea ospitata al Cresto. Dai documenti, in seguito ritrovati, si è saputo che si trattava di Carlo Frapolli con la moglie Margherita Clava e i figli Michele e Carlo di 20 e 25 anni; la famiglia sfollò al Cresto negli ultimi mesi della guerra.
“Erano ospiti, non pagarono affitto”, fa sapere Gabriella Cantore. In quegli anni i Cantore coltivarono poi un’intensa amicizia con la famiglia Pescarolo, ospite al Cresto nella Villa San Carlo: “Mia nonna – annota Gabriella Cantore – li aiutò durante e dopo la guerra, quando si trovarono in difficoltà e per qualche tempo rimasero al Cresto”.
Negli anni successivi il marito morì e la moglie andò ad abitare a None. “Ma l’amicizia con mia nonna continuò fino alla morte della signora Maria”.
Letizia Fobini: ‘Era giusto aiutarli’
Ancora più dettagliata la testimonianza di Letizia Fobini che conferma:
“Al Cresto, frazione di Sant’Antonino, tra il 1944 e il 1945 c’erano tre famiglie di ebrei: i Frapolli (ospitati da Luigina Pent), i Pescarolo (Gabriele e la moglie Elvira Silvis, la sorella Angela, Giuseppe Malanetto e Maria Pescarolo), i Calvi.(Piercarlo con il figlio Giorgio). Le famiglie Pescarolo e Calvi vennero ospitate nella grande Villa San Carlo, allora di proprietà della diocesi di Susa”.
‘I coniugi Pescarolo – racconta Fobini, testimone diretta dei fatti – avevano una bella casa e un negozio a Torino. Appena terminata la guerra vendettero la casa per sopravvivere ma finirono in una condizione di povertà. Lasciarono un buon ricordo tra gli abitanti del Cresto che, negli anni, cercarono di aiutarli. Trovarono quindi una sistemazione modesta a None. Per diversi anni siamo andati a trovarli poi non abbiamo più avuto notizie”.
Della famiglia Calvi si sa poco: i genitori avevano una cinquantina d’anni, il figlio Giorgio studiava all’Università. “Io andavo spesso dai Frapolli che avevano una bella utensileria a Torino, data in gestione a persone fidate. Ogni tanto, di notte, i Calvi e i Pescarolo andavano a Torino per curare i loro affari”.
“Non eravamo gli unici a sapere che c’erano ebrei in Villa S. Carlo e dai Pent – racconta Letizia Fobini – ma nessuno disse nulla alle autorità. Ci fu anche un rastrellamento nell’ottobre del 1944, per fortuna non accadde nulla di irreparabile.
Durante la guerra avevo 14 anni ma non lavoravo ancora. Per me, per noi in famiglia, queste erano persone in difficoltà e trattate ingiustamente. Era giusto aiutarle, tanto più che mio padre ci disse che le sue stesse origini erano ebree ma che venne adottato da una famiglia cristiana che cambiò il suo cognome da Fubini in Fobini. Una ragione in più per aiutare i Frapolli e, dopo la guerra, i Pescarolo che avevano bisogno del sostegno di amici”.BRUNO ANDOLFATTO