Don Taccori: “Il mio giorno libero in prigione”
Don Antonello Taccori, parroco di Villar Focchiardo e San Giorio, da un po’ di tempo ha deciso di non fare solo il parroco e il responsabile della pastorale giovanile, e di aprire una finestra della sua vita su un mondo che, come lui stesso ammette, “è delicato e complesso”.
La sua prima volta in carcere?
“Il primo ingresso risale a qualche giorno prima di Natale, nel 2017. Era un momento di festa organizzato con i detenuti dai gruppi del Rinnovamento dello Spirito. Da quel momento ho iniziato ad operare in appoggio ai cappellani del carcere”.
Qual è stato l’impatto?
“Subito ero disorientato. Ho capito che in quel mondo dovevo entrare in punta di piedi, con delicatezza. Su quelle persone spesso si sentono giudizi affrettati, superficiali. Adesso seguo soprattutto i carcerati del cosiddetto blocco B, quello dei “nuovi giunti”. In tutto sono 500-600 persone sul totale di circa 1500 rinchiusi alle Vallette. Ma mi sono trovato spesso a relazionarmi con carcerati del settore di “massima sicurezza” che sono quelli a rischio suicidio o che possono creare pericoli. Quello è veramente il luogo peggiore, dove sono privati di ogni cosa e dove i margini di autonomia sono ancora più ristretti”.
Quello del carcere è davvero un “mondo a parte”, impensabile per chi non lo conosce. Che cosa succede a chi è recluso?
“Che perde completamente la libertà. Sarà banale, ma è veramente terribile. Si perde la libertà di poter sentire e trasmettere affetto alle persone vicine, di famiglia. E’ frequente la domanda: “Chissà a casa i miei cosa stanno facendo, se stanno bene o male”. Essere chiusi qui dentro fa star male; un ragazzo una volta piangeva in continuazione perché sua mamma stava morendo e lui non poteva essere lì con lei. Una cosa terribile, soffocante, che fa mancare l’aria”.
Ma certo in carcere non sono stinchi di santo.
“E’ vero, ma lì dentro c’è di tutto. Ci sono quelli che proprio non ce la fanno, che qualche giorno dopo aver finito la pena sono di nuovo qui. E poi quelli che si rendono conto di aver sbagliato, che fanno i conti con la loro coscienza. Ci sono quelli che sono stati messi con le spalle al muro dalla crisi, che
hanno perso tutto, che non ce la facevano più a tirare avanti e che hanno imboccato delle scorciatoie illegali per tirar su soldi.
Insomma, per chi vive fuori dalle sbarre è facile sputare sentenze, dire che bisogna buttare via la chiave, che devono marcire in galera…“
Sì. E chi dice queste cose non conosce nulla di questo mondo che, in teoria, dovrebbe rieducare ma che spesso non riesce a farlo. Le iniziative non mancano: corsi, scuole, laboratori. Di cose se ne fanno ma probabilmente non bastano. Chi sputa sentenze poi non sa che a volte finire in carcere potrebbe capitare a chiunque, basta niente… la sfortuna in fondo è sempre dietro l’angolo. Valgono le parole di Papa Francesco quando dice “è successo a loro ma poteva capitare a me”. Comunque devo dire che questa esperienza mi ha insegnato e mi insegna molto e, a costo di scandalizzare, dico che mi succede di trovare gente più trasparente qui che fuori.
Ma cosa ci fa un prete oltre le sbarre?
“Prima di tutto ascolta. E trovo spesso persone che pregano, che si rifugiano nella fede. Sto accompagnando un ragazzo che ha riscoperto la fede, che prega spesso e sta facendo il percorso per essere cresimato. Ti garantisco che vedere un carcerato che prega ti spezza davvero il cuore. Poi, certo, lo dicevamo prima: qui non sono stinchi di santo, l’ambiente è difficile, se ne vedono di tutti i colori. Ma molti aspettano la mia visita e se per qualunque motivo non ce la faccio ad andare la volta dopo mi rimproverano: “Ci hai traditi”.
Anch’io attendo questo giorno con ansia. E’ il mio giorno “libero”, ma sono felice di trascorrerlo con questi carcerati che sento davvero come miei figli”
BRUNO ANDOLFATTO