Giugno 1940, è guerra con la Francia
“ La guerra fascista. Dalla vigilia all’armistizio, l’Italia nel secondo conflitto mondiale”.
E’ il libro dello storico Gianni Oliva, edito da Mondadori, in vendita nelle librerie da mercoledì 9 giugno.
Il primo capitolo del libro racconta il primo atto della guerra avvenuto qualche giorno dopo la dichiarazione di guerra (10 giugno 1940): la cosiddetta “pugnalata alla schiena” della Francia con l’avvio delle ostilità sul fronte delle Alpi Occidentali. Un conflitto che durò pochi giorni, iniziato il 20 giugno e terminato il 24 con l’armistizio entrato il vigore il giorno successivo. “ Quattro giorni che per le nostre vallate hanno significato molto – spiega Oliva – e credo sia corretto sostenere che la frattura tra l’opinione pubblica e il regime fascista, in Piemonte e in Valle d’Aosta, sia nata proprio in quei giorni”.
Una guerra senza motivo
“ Per noi i francesi sono da sempre un riferimento”, prosegue lo storico. “ L’altro versante delle Alpi è stato unito al nostro per tanti secoli nel Ducato di Savoia prima e nel Regno di Sardegna dopo. Nell’800 e nel primo ‘900 tanti nostri nonni e genitori andarono a lavorare in Francia e molte famiglie, nel giugno del 1940, si vennero a trovare su entrambi i versanti. E’ il caso della mia famiglia; mia mamma, nata nel 1920 a Parigi, era figlia di immigrati francesi che poi erano rientrati. Cugini, zii e altri parenti, invece, stavano dall’altra parte”.
L’apertura delle ostilità segnò l’evacuazione dei comuni di frontiera. “ Paesi come Cesana, Oulx, Salbertrand, Bardonecchia si trovarono in prima linea e la popolazione venne costretta a spostarsi a piedi ai centri ferroviari e da lì trasportati nei campi di raccolta allestiti nel piacentino, nel pavese, in provincia di Alessandria. Molti furono costretti a svendere il patrimonio zootecnico (non potevano certo girare con le mandrie lungo la pianura padana) e in quei giorni a Susa, Pinerolo, Aosta comparvero speculatori di regime che approfittarono per comprare sottocosto il bestiame. Proprio la perdita del patrimonio zootecnico fu una delle ragioni dello spopolamento delle vallate avvenuto nel dopoguerra”.
Il teatro del conflitto
La valle di Susa – con i passi del Moncenisio e del Monginevro e i paesi dall’alta valle – fu quindi il primo fronte di guerra. Destino condiviso con le Alpi Marittime e la Valle d’Aosta. Tutto, nelle intenzioni del regime, avrebbe dovuto risolversi in una guerra breve, quasi una passeggiata. Non fu così. Il bilancio di quattro giorni contò, per gli italiani, 631 morti, 616 dispersi, 1.141 prigionieri di guerra, 2361 feriti, molti congelati a causa dell’abbigliamento non adatto a zone di alta montagna caratterizzate da nevai e ghiacciai.
“ Per fortuna – afferma Oliva – il conflitto durò solo quattro giorni, figuriamoci fosse durato quattro mesi. Mussolini entrò in guerra consapevole che l’Italia era impreparata; non era pronto l’esercito e neanche l’economia. Nel 1939, dopo gli accordi legati al Patto d’Acciaio con la Germania, in una lettera a Hitler, Mussolini spiegava che l’Italia sarebbe stata pronta solo dopo 3-4 anni. Ma la Germania accelerò i tempi, seguendo una strategia che prescindeva da qualsiasi accordo con l’alleato. Mussolini tentò l’azzardo ed entrò in guerra quando si rese conto che la Francia non era in grado di resistere sulla linea Maginot e quando si accorse che gli inglesi si stavano reimbarcando in modo rocambolesco a Dankerque. Fu lo scenario della Francia ormai sconfitta e dell’Inghilterra in forte difficoltà a convincere Mussolini. Il Duce temeva per l’Italia un destino da potenza marginale. Di qui l’azzardo nella convinzione che la Francia avrebbe presto ceduto le armi senza combattere, ormai prostrata dalle armate tedesche, e nell’illusione che gli italiani avrebbero potuto raggiungere Chambery, Lione, Nizza e le altre città francesi in breve tempo. Non andò così”.
Le ragioni dell’insuccesso italiano
I motivi di questo insuccesso? “ Carl Von Clousewitz disse che attaccare la Francia dalle Alpi è ‘come pretendere di sollevare un fucile prendendolo per la baionetta’. Tra i due paesi ci sono 5 passaggi: Tenda, Maddalena, Cenisio, Monginevro e Piccolo San Bernardo. Bloccati quelli (e con le fortificazioni della Maginot alpina era facile farlo), a chi attaccava non restava altro che andare su per le rocce. Lo potevano fare gli alpini, gli incursori, non certo le artiglierie pesanti. Ed è questo il motivo per cui i soldati italiani in Francia penetrarono non più di 3-4 km. Il sistema era stato concepito, da parte francese e italiana, in funzione difensiva e il vallo alpino, con tutte le fortificazioni ancora oggi visibili, rendeva impossibile l’attacco nemico, dall’una e dall’altra parte. I francesi riuscirono a respingere facilmente gli attacchi che causarono un numero di morti tra le fila italiane molto alto rispetto ai pochi giorni di combattimento. Per non parlare dei congelati causati dalle temperature rigide in alta quota e dalle nevicate fuori stagione ma la causa principale fu l’attrezzatura inadeguata dei soldati. Errore ripetuto qualche anno dopo con la Campagna di Russia e il tragico inverno del 1942 43”.
L’orgoglio fascista distrutto con lo Chaberton
Il forte posto alla sommità della piramide rocciosa del Monte Chaberton era l’orgoglio del Vallo Alpino, dall’alto dei 3.135 metri di altezza, con le sue 8 torrette che puntavano il vallone di Briancon. “ Quel forte rappresentava l’imprendibilità delle Alpi ed era un elemento di orgoglio. Il problema? Lo Charberton venne progettato alla fine dell’800, quando la gittata dei cannoni non raggiungeva la vetta della montagna. Negli anni ’30 ci si accorse che i nuovi mortai avevano una potenza tale da rendere vulnerabile il forte; lo Chaberton venne rafforzato con corazzature rafforzate in acciaio italiano ma non in quantità tale da renderle inviolabili. Risultato: i francesi cominciarono a sparare alle tre e mezza di pomeriggio e due ore dopo, alle cinque e un quarto, la terza torretta venne colpita in pieno. Dallo Chaberton si smise di sparare e il forte venne ripetutamente colpito dai francesi negli sprazzi di bel tempo in una giornata dominata dalla nebbia. Fu così che quel motivo di orgoglio fascista nel giro di qualche ora venne distrutto. Un fatto simbolico che rappresenta il regime fascista, basato sulle parole, sul fumo, sull’azzardo, sui bluff”.
Il conto pagato alla fine della guerra
Nonostante la penetrazione degli italiani, nel 1940, avesse di poco oltrepassato i tre- km al Piccolo San Bernardo non si arrivò neppur a Bourg-Saint-Maurice, primo paese francese mentre qui, dalle nostre parti non si è arrivati neanche a Lanslevillard e a Lanslebourg –i francesi se la legarono al dito. “ Alla fine della guerra il generale De Gaulle tentò annettere alla Francia la Valle d’ Aosta e i fondovalle al di qua delle Alpi. I francesi avanzarono ma vennero contrastati dai partigiani e, soprattutto, dagli angloamericani che imposero loro di fermarsi sui colli. Il Trattato di Pace di Parigi del 1947 spostò il confine tra i due Stati penalizzando l’Italia, il Moncenisio divenne francese e le risorse idroelettriche passarono ai francesi. Ma non va dimenticato che scatenare la guerra fu l’Italia, non certo la Francia”.
Che cosa ci insegna quella vicenda
“ I fatti di quei giorni, gli anni della guerra fascista sono ormai lontani dalla coscienza e dalla memoria. Per la nostra generazione è un racconto che abbiamo sentito spesso in casa dai genitori e dai nonni, non perché fossero tutti partigiani o reduci di Russia ma perché quella stagione l’hanno vissuta davvero e ci hanno educato raccontandocela. Che cosa sia la pace io l’ho imparato sentendo parlare di cos’era la paura della guerra, i rastrellamenti, i morti impiccati, i bombardamenti su Torino. Che cosa sia la libertà l’ho imparato sentendo raccontare che in quegli anni prima di aprire bocca ci si doveva guardare intorno. Cosa sia il benessere l’ho imparato sentendo i racconti della fame, del pane nero. Oggi questa memoria non c’è più perché non ci sono più i protagonisti. E quando non c’è più la memoria bisogna sostituirla con la conoscenza. Purtroppo abbiamo un sistema scolastico dove la conoscenza della storia contemporanea è poco in onore.. Se chiediamo a un giovane di parlarci della battaglia di Canne o di Annibale qualcosa saprà dire. Ma se spostiamo l’attenzione su di Piazza Fontana o il delitto Moro no. I programmi di Storia non raccontano la contemporaneità. Così a me piacerebbe se in questi giorni le televisioni, ricordando l’entrata in guerra dell’Italia a 80 anni di distanza, parlando del 10 giugno 1940 facessero sentire il discorso di Mussolini in piazza Venezia. Quando Mussolini dice testualmente ‘la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra’, la piazza esplode come se Cristiano Ronaldo avesse segnato un gol in rovesciata. Quella folla non era fatta da personaggi strani. Erano i nostri nonni, i nostri genitori; una generazione educata a credere alla guerra, all’arditismo, alla virilità, all’aggressività, alla superiorità degli uni sugli altri. Quel che ci deve insegnare la guerra è che i meccanismi che portano i popoli alla deriva sono quelli della educazione e della informazione che modellano i cittadini a immagine e som
BRUNO ANDOLFATTO