Le storie degli ebrei salvati dai valsusini
27 gennaio 1945: le truppe sovietiche della 60ª Armata del ‘1º Fronte ucraino’ arrivano per prime nella città polacca di OswiOEcim (in tedesco Auschwitz); qui scoprono il vicino campo di concentramento di Auschwitz, abbattono i cancelli e liberano i prigionieri superstiti.
Quella data, 27 gennaio, da anni coincide con la Giornata della Memoria.
In questo periodo scorrono in televisione immagini, testimonianze, racconti di quell’orrore. Ed è giusto che questo accada perché non si dimentichi.
Altrettanto importante, però, è ricordare quanti in quegli anni si prodigarono, rischiando la vita, per salvare persone perseguitate dalla follia nazista.
E’ successo anche in Valle di Susa.
Così a Sant’Antonino la vita di undici ebrei, tra il ’44 e il ’45, venne protetta e da alcuni cittadini: Avventino Burdino e Cesarina Martin, Luigina Rossetto Giaccherino e Letizia Fobini.
I TEDESCHI IN TRATTORIA, GLI EBREI IN CASA
La figlia di Avventino Burdino, Anna, ricorda in una memoria affidata alla nipote Carola che “la nostra casa durante la guerra divenne punto di riferimento per i soldati tedeschi che avevano occupato le scuole elementari. La trattoria gestita dai miei genitori era aperta solo per loro. Mia madre era obbligata a cucinare e io servivo ai tavoli”.
Anna, figlia di Avventino, nel 1944 aveva 18 anni: “In trattoria venivano per lo più ufficiali e sottufficiali e lasciavano anche i cavalli nelle nostre stalle’. Ma Avventino riusciva lo stesso portare di notte ai partigiani il grano che lavorava di giorno con la sua mietitrebbia”.
Proprio negli anni della guerra i Burdino ricevono una richiesta di aiuto dalla moglie di un ‘impresario edile per il quale Avventino aveva lavorato portando con i muli la sabbia della Dora.
“Sua moglie, rimasta vedova e sua nipote, entrambe ebree, chiesero ai miei genitori se potevano nascondersi a casa nostra. Mio padre non ebbe alcun dubbio; preparò una camera sopra la trattoria e le due donne rimasero con noi per sei-sette mesi. Fortunatamente nessuno si accorse di nulla. Avevamo i soldati tedeschi in casa e di fronte casa e ogni giorno c’era un via vai di gente; sarebbe bastato poco per essere scoperti”.
GLI EBREI RIFUGIATI AL CRESTO
Gabriella Cantore in una nota scritta, evoca il ricordo di Carlo Frapolli che, con la moglie Margherita Clava e i figli Michele e Carlo di 20 e 25 anni, sfollò al Cresto negli ultimi mesi della guerra.
“Erano ospiti, non pagarono affitto”,. In quegli anni i Cantore coltivarono un’intensa amicizia con la famiglia Pescarolo, ospite al Cresto nella Villa San Carlo: “Mia nonna – annota Gabriella Cantore – li aiutò durante e dopo la guerra, quando si trovarono in difficoltà e per qualche tempo rimasero al Cresto ”.
LETIZIA FOBINI: ‘ERA GIUSTO AIUTARLI’
Letizia Fobini conferma:
“Al Cresto, frazione di Sant’Antonino, tra il 1944 e il 1945 c’erano tre famiglie di ebrei: i Frapolli (ospitati da Luigina Pent), i Pescarolo (Gabriele e la moglie Elvira Silvis, la sorella Angela, Giuseppe Malanetto e Maria Pescarolo), i Calvi.(Piercarlo con il figlio Giorgio). Le famiglie Pescarolo e Calvi vennero ospitate nella grande Villa San Carlo, allora di proprietà della diocesi di Susa”.
Della famiglia Calvi invece si sa poco: i genitori avevano una cinquantina d’anni, il figlio Giorgio studiava all’Università. ‘ Io andavo spesso dai Frapolli che avevano una bella utensileria a Torino, data in gestione a persone fidate. Ogni tanto, di notte, i Calvi e i Pescarolo andavano a Torino per curare i loro affari. Non eravamo gli unici a sapere che c’erano ebrei in Villa S. Carlo e dai Pent – racconta Letizia Fobini – ma nessuno disse nulla alle autorità. Per tutti noi queste erano persone in difficoltà e trattate ingiustamente ed era giusto aiutarle“, tanto più che mio padre ci disse che le sue stesse origini erano ebree ma che venne adottato da una famiglia cristiana che cambiò il suo cognome da Fubini in Fobini. Una ragione in più per aiutare i Frapolli e, dopo la guerra, i Pescarolo che avevano bisogno del sostegno di amici”.
A dare manforte in questa rischiosa opera umanitaria non va dimenticata Ilse Schoelzel Manfrino, la “tedesca” di cui tanto si è parlato e scritto; sposata con l’attore Vittorio Manfrino e sfollata al Cresto si trovò a dover svolgere il ruolo di interprete al Comando tedesco, utilizzando questa posizione per salvare numerose vite umane.
VILLAR DORA, TRE FAMIGLIE EBREE RIFUGIATE ALLA BORGIONERA
A Villar Dora, nel 2014, è stato Elisio Croce, compianto sindaco del paese, a ricordare quanto avvenne sulla collina villardorese, nella borgata Borgionera “Lassù, in un casolare, durante l’ultima guerra trovarono asilo, aiuto concreto e protezione, alcune famiglie di religione ebraica. La vicenda ebbe inizio dopo quel fatidico 8 settembre 1943, quando i tedeschi entrarono in Italia accentuando così la persecuzione degli ebrei già discriminati dalle leggi razziali. Nel dicembre di quell’anno il giornale radio comunicava che tutti gli ebrei dovevano essere arrestati e condotti nei campi di concentramento”.
La famiglia Valabrega, sentendosi in pericolo comunicò, tramite la domestica proveniente daVillar Dora (dove ancora viveva la sorella), con Carmelo Richetto, un brav’uomo residente in paese, che manifestò subito la disponibilità di accogliere nella propria casa quelle famiglie in pericolo di vita”.
A dare una mano c’era anche un partigiano della prima ora, Cristoforo Giorda, detto “Vigio”: così tre famiglie ebraiche, Valabrega, De Benedetti e Tedeschi Sacerdote, raccolte le proprie poche cose salirono lassù, in quel casolare fra i boschi, dove mancava la luce elettrica e i pasti si cucinavano sul camino.
La famiglia Richetto oltre all’ospitalità, garantiva agli ospiti anche il sostentamento, mettendo a loro disposizione i prodotti della campagna che coltivavano. Non solo; l’aiuto si estendeva alla difesa personale grazie ai partigiani Carmelo e Vigio che, armati di tutto punto, accompagnarono perfino il Valabrega all’ufficio postale per prelevare denaro che, nonostante fosse lì depositati, non fu disponibili perchè appartenente ad ebrei.
Il 27 gennaio 1984, nell’ambito di una cerimonia a Milano, alla presenza di funzionari dell’Ambasciata di Israele, è stata conferita dall’Istituto YadVashem di Gerusalemme, la medaglia del “Giusto” a Carmelo Richetto ed alla moglie Angiolina Quattrin.
IL PATRON DELLA MAGNADYNE E IL DIRETTORE EBREO
Torniamo a Sant’Antonino per ricordare un altro gesto venuto alla luce qualche anno fa. Riguarda il fondatore della Magnadyne Paolo De Quarti che alle sue dipendenze ebbe l’ingegnere ebreo Nissim Gabbai. Bene, il commendator Dequarti non solo assunse il neolaureato Gabbai, ma gli salvò anche la vita durante il periodo delle persecuzioni razziali. In quel periodo Dequarti, rischiando in prima persona, ritardò il più possibile e in tutti i modi il momento della deportazione del suo giovane impiegato ebreo che così riuscì a evitare di finire in unun campo di sterminio.
Una volta rientrato alla Magnadyne, Gabbai lavorò al fianco di Dequarti fino a diventare direttore dell’azienda. Paolo Dequarti ricevette il titolo di Giusto tra le Nazioni e in sua memoria è stata collocata una stele commemorativa nella zona industriale di Sant’Antonino.
LA SCHINDLER ALMESINA, NONNA DI GIORGIO CALCAGNO
Un’altra storia è quella raccontata dall’almesino Giorgio Calcagno, compianto giornalista scrittore del quotidiano La Stampa.
La vicenda riguarda sua nonna Ann Schindler che, insieme al marito “salvò tanti partigiani”, Lei faceva Schindler di cognome, come il protagonista di una nota vicenda, raccontata in un famoso film di Steven Spielberg: “Sì, veniva dalla stessa terra ed è possibile che fosse sua parente ”, ricorda Calcagno. “Di certo, contribuì anche lei a salvare parecchie vite, nel centro della Val Messa, conteso ogni giorno fra tedeschi e partigiani”. “ Mia nonna si chiamava Agnes, era nata nel 1871 a Karlsbad, nei Sudeti, allora città dell’impero austroungarico. Suo padre, Florian Schindler, aveva uno stabilimento termale e nonna Agnes vi aveva conosciuto i grandi d’Europa, compresi Francesco Giuseppe e la bella Sissi («la mia imperatrice», diceva). Lì aveva incontrato, e sposato, un torinese che costruiva ferrovie in Boemia, Stefano Bonino, e lo aveva seguito nel 1900 in Italia”.
Nella seconda guerra mondiale i coniugi Bonino cercarono rifugio ad Almese, con i loro familiari. Quando i tedeschi posero in paese un loro presidio, per fronteggiare i partigiani della Val Messa, Ann e Stefano erano le sole persone che sapevano la loro lingua. “Sfruttarono così questa conoscenza per stabilire buoni rapporti con l’Ortskommandantur, e avvalersene poi per aiutare i giovani della zona, quasi tutti legati alla Resistenza, che incappavano nelle retate. Stefano Bonino, a un certo punto, scoprì di essere la sola autorità del paese, senza averne alcun titolo: ma il podestà si era dileguato, abbandonandogli il municipio. E lui lo mandò avanti fino al 25 aprile, riuscendo quasi sempre a evitare rappresaglie sui paesani. Prendeva a braccetto il comandante tedesco, gli offriva da bere nelle osterie e poi gli chiedeva il riscatto di qualche prigioniero, garantendo per lui: «Un mio caro e buon amico» (e quasi sempre partig iano)”.
Tante le persone salvate, come la centralinista Jucci Bugnone e poi Aldo Magnetto. Alcuni invece non riuscì a salvarli… Stefano Bonino è sepolto ad Almese accanto alla moglie e una lapide ricorda, a tutti i paesani, la presenza benefica di quella Schindler, negli anni più bui.
Pagina a cura di Bruno Andolfatto