Sei novembre: il giorno della democrazia, il giorno dei diritti. Anche per “los cincos” cubani
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Nel giorno in cui gli Usa scelgono il nuovo presidente. Nel giorno in cui tutto il mondo (o quasi) spera in una riconferma di Obama.
In questo giorno vogliamo fare cinque nomi:
In questo giorno vogliamo fare cinque nomi:
Ramon, Renè, Gerardo, Fernando e Antonio.
Nomi che forse non ci dicono niente.
In realtà queste persone sono “famose” in tutto il mondo, di loro si sono occupati i media di informazione e per loro si sono costituiti in più di centotrenta paesi comitati di solidarietà. Sono “Los cincos” cubani, da quattordici anni nelle prigioni degli Stati Uniti, condannati alcuni di loro a due ergastoli e spiccioli di anni, altri a più di trent’anni di carcere, pene durissime, da alcuni anni ridotte, ma pur sempre pesanti. Solo uno, Renè Gonzales, ha ottenuto la libertà vigilata, da scontare però a Miami, dove pubblicamente si incita al suo assassinio.
Qualunque sia la nostra opinione sul regime cubano, per molti la vicenda dei Cincos è un insulto alla democrazia e al rispetto della dignità umana: inviati in Florida dal governo cubano per sventare attacchi terroristici programmati dalla mafia anticastrista di Miami, i cinque vennero arrestati nel settembre 1998, come ritorsione sulle fonti di tali informazioni, emerse in un incontro bilaterale avvenuto a Cuba tra il governo di Fidel e l’FBI, appena alcuni mesi prima.
Nel corso del processo, i cinque sono stati segregati in condizioni d’isolamento per diciassette mesi, quando la legge nordamericana prevede un limite massimo di sei mesi. Non solo: durante l’isolamento, alcuni di loro hanno vissuto in una scatola metallica di circa 1 metro quadro, contenuta in un’altra cella, definita “il buco”, “el hoyo”, con soltanto un letto a disposizione, la luce per ventiquattro ore al giorno, i pasti serviti ad orari variati. “Finora – racconta Ailì . noi parenti abbiamo potuto visitarli richiedendo un visto, concesso dagli Stati Uniti soltanto per lo stato in cui si trova prigioniero il familiare arrestato. Da anni i cinque sono imprigionati in istituti di pena diversi in Stati differenti. E nei giorni di permesso non ci è consentito incontrare la stampa né i comitati di solidarietà sorti ovunque per denunciare tale vicenda. Se poi le condizioni atmosferiche sono proibitive oppure se rivolte nelle carceri ne impongono la chiusura, perdiamo i giorni di visita, senza poterli recuperare”.
“Avevo tredici anni quando mio padre venne arrestato – racconta la figlia di Ramon Labanino – ed ero convinta che lui fosse in Spagna per attività economiche a favore del governo cubano. Quando ricevetti la notizia, ebbi bisogno di una consulenza psicologica per superare lo shock”. Adesso Ailì è laureata in informatica ed è impiegata presso una ditta a La Havana, viaggia per il mondo per denunciare la situazione di padre e dei cinque. “Viaggi che stancano e destabilizzano. Ma le volte in cui leggo negli occhi di chi mi ascolta la solidarietà, ricaccio le lacrime e capisco che non devo arrendermi”. E il cinque di ogni mese, alla Casa Bianca arrivano da tutto il mondo telegrammi, fax, messaggi di posta elettronica in solidarietà con Los Cincos, perché possano finalmente tornare a casa, a Cuba, ponendo fine a questa enorme ingiustizia. Ma cosa pensa Ailí Labañino del futuro ? “Penso che il futuro è bello. Penso a una nostra patria ogni volta più libera, più socialista, più umana. Il futuro dell’umanità sarà molto più tranquillo ed umano. Sogno un mondo dove non esista il capitalismo, dove l’uomo è amico dell’uomo, senza frontiere, senza denaro, senza avarizie imperialiste, senza egoismi. Sembra un’utopia ma non lo è. Per questo lottiamo giorno dopo giorno con tutto il nostro coraggio”