Coronavirus, Torino-Venezia A/R nei giorni dell’epidemia
TORINO-VENEZIA andata e ritorno. Doveva essere, e lo è stato, un week end allegro e spensierato, trascorso con la famiglia in una delle città più belle del mondo.
L’occasione: il Carnevale. L’inconveniente: il Coronavirus con allegati psicosi collettiva, moltiplicarsi di fake news, senso di ansia e preoccupazione non sempre facile da gestire.
Sabato 23 febbraio, per tutta la giornata, un tiepido sole illumina la città lagunare e la rende godibile più che mai. La cartolina è … incantevole. I turisti sono diminuiti e si nota. Effetto dei giorni tremendi dell’acqua alta e, adesso, del famigerato virus che proprio durante il week end ha preso di mira il Nord Italia, in particolare il lodigiano senza però risparmiare il Veneto e arrivando a lambire proprio i dintorni del Canal Grande. Un duro colpo per l’economia di una città che vive pur sempre di turismo ma un’occasione imperdibile per il turista che riesce a gestire la “paura” mettendo in atto le normali prassi igienico-sanitarie così da prevenire possibili contagi. Poi si sa: la fortuna è cieca mentre la sfiga ci vede benissimo ma questa è un’altra storia. Per tutta la giornata di sabato il via vai di turisti lungo le calli e a bordo dei vaporetti è insistente ma ben lontano dalle cifre record di anni ben più fortunati. La coda per entrare nella basilica di San Marco è rapida; più lunga quella dello scalone che conduce alla biglietteria delle logge interne ed esterne e del Museo. In piazza c’è il pittoresco andirivieni delle maschere tipiche del carnevale veneziano a cui però si aggiungono le … “mascherine” che coprono parte del viso, bocca e naso di turisti e anche degli agenti della Polizia Locale veneziana. Le notizie che circolano più veloci del virus non aiutano a star tranquilli e aumentano il panico. Le news (in questo caso non “fake”) narrano di più di venti contagi nel Veneto nelle ultime ore mentre registrano il decesso di una persona anziana proprio in quel di Venezia (centro storico) già ricoverata all’Ospedale Civile e trovata positiva al virus e di un’altra persona del padovano. Lo scenario, incantevole, cambia domenica. Le maschere veneziane affollano una piazza San Marco semideserta fino all’annuncio che, causa Coronavirus, il carnevale smobilita, chiude nel tardo pomeriggio con premiazioni frettolose e… tanti saluti. Scende la sera. Per il turista giunge il tempo di pensare al rientro. Si apre il capitolo 2 della storia. Che fare, visto che il ritorno avviene da una zona lambita dall’emergenza sanitaria? Rientrare domani al lavoro come se nulla fosse? Avvisare l’Asl, chiedere lumi all’azienda di cui si è alle dipendenze? A chi telefonare? Chi contattare? L’incertezza regna sovrana. Unico dato certo: in famiglia godiamo tutti, piccoli e grandi, di ottima salute e non si registra il benché minimo cenno di starnuti o febbriciattole. Ma si sa, meglio non sfidare la sorte. La pur remota ipotesi di essere additati come “untori” al rientro va sgomberata Così, sulla via del ritorno, accendiamo computer e telefonino e proviamo a capirne di più. La notizia è che a mancare son proprio loro… le informazioni, quelle che, in casi come il nostro, sono carenti, inferiori ai numeri verdi messi in piedi. Tutti occupati o che dopo uno squillo rimangono muti. Riusciamo ad avere un’indicazione in via confidenziale da un medico che ci suggerisce di chiamare il 112 (“loro hanno le mappe e sanno cosa consigliare”). Il 112? Sì proprio quello delle emergenze; quello che se sei riverso sull’asfalto dopo un incidente chi ti soccorre prega di trovare libero altrimenti per te è la fine. Difatti è occupato e lo rimane per quasi dieci minuti prima di ottenere una risposta evasiva: “Come sta? Ha febbre? Ah deve tornare al lavoro? Faccia il numero verde per sapere cosa fare”. Il viaggio Venezia-Valle di Susa dura quasi quattro ore e dall’auto trasformata in … ufficio mobile (tecnicamente si chiama smartworking), dalla mia postazione di passeggero partono almeno quindici telefonate ai due numeri verdi noti in quell’istante. Uno non risponde mai, l’altro risponde ma dà indicazioni generiche. Intanto dal datore di lavoro arriva l’indicazione: “Lavora da casa, non si sa mai…” Dopo una telefonata al numero dell’Asl, con la centralinista che a sua volta tenta invano di contattare il numero verde, l’unica strada da percorrere è la mail. Usiamo la “pec” con messaggio indirizzato all’Azienda Sanitaria Locale con l’obiettivo di avere (prima o poi) istruzioni. Tentiamo anche la pista di un messaggio whatsapp a un dirigente Asl che a precisa domanda (“Posso tornare a lavorare?”) risponde: “Se non ha sintomi e non è stato in contatto con soggetti a rischio o risieduto in aree a rischio palese, direi non ci siano problemi”. Chi decide che cosa e per chi? Boh. Nel dubbio meglio la prudenza e tapparsi in casa a lavorare. Passano più 24 ore, sono le da poco passate le 17 di martedì. La risposta alla mail inviata via pec arriva dal Dipartimento Prevenzione Servizio Igiene e Sanità Pubblica con tanto di certificato di “riammissione lavorativa”, preceduto da una cortese e dettagliata telefonata del medico che chiarisce nei dettagli la situazione e che dopo aver chiesto “Ma lei negli ultimi mesi è andato in Cina…?”, aggiunge: “… se avesse telefonato prima le avrei risposto subito”. Appunto…
Bruno Andolfatto